Cher Ami, eroe a stelle e piume.

3 Ottobre 1918, Foresta delle Argonne, Francia nordorientale.
Nove compagnie di fanteria e mitraglieri della 77ima Divisione americana, comandate dal maggiore Charles White Whittlesey e composte da circa 554 uomini, si trovano circondate dalle forze nemiche tedesche. Gli alleati francesi che avrebbero dovuto affiancarle sono rimasti indietro e gli americani si trovano bloccati da sei giorni in una depressione del territorio: a dividerli dalle linee tedesche della Quinta Armata, solo il fianco alberato di una collina.

Uomini della 77esima Divisione americana.

Il cibo è poco e l’unica fonte d’acqua potabile è un fiume che scorre proprio sotto l’accampamento nemico. I Tedeschi continuano ad attaccare, a più riprese giorno dopo giorno, nella convinzione che quel piccolo gruppo di soldati possa infiltrarsi fra le loro linee e cambiare le sorti del conflitto. Le munizioni cominciano a non bastare e le comunicazioni sono interrotte: ogni corriere inviato dal maggiore Whittlesey al fronte alleato viene intercettato e ucciso.

Le forze americane, nel tentativo di fornire aiuto al battaglione disperso, attuano operazioni di fuoco diffuso: i bombardamenti dell’artiglieria pesante, però, colpiscono i loro stessi uomini, le cui coordinate precise sono sconosciute.
Dei circa 500 soldati della 77ima distaccati in quell’operazione, ne sono morti già quasi duecento. Decine di altri sono stati catturati o sono dati per dispersi.

Al maggiore Whittlesey rimane una sola risorsa, un’unica speranza: i piccioni viaggiatori in forza alle sue unità.

Un messaggio che recita “Molti feriti. Impossibile evacuare.”viene inviato con un primo piccione: si libra in volo, sotto gli occhi disperati del battaglione… e sotto gli occhi dei cecchini tedeschi, che lo abbattono prontamente. Tutti i soldati, di ogni grado e fazione, ormai conoscono il significato di un messaggero alato che si alza dalle linee di combattimento: porta informazioni, e le informazioni possono essere più pericolose di un intero battaglione. Un messaggio consegnato al momento giusto può cambiare completamente lo svolgersi di un conflitto.

Cher Ami con indosso una delle pettorine che l’esercito utilizzava per l’invio dei messaggi.

Un secondo piccione spicca il volo dalla vallata dove sono bloccati i ragazzi della 77esima: “Gli uomini stanno soffrendo. Supporto necessario.” è il messaggio che porta con sé, legato alla zampa sinistra. Indifeso davanti alla furia delle mitragliatrici e delle pallottole che solcano il cielo, il piccione viene colpito a morte e precipita con il suo messaggio d’aiuto.

Un solo uccello è rimasto al campo: il suo nome è Cher Ami, caro amico in francese. Addestrato dai soldati delle Signal Force americane, ha già portato a termine undici missioni nell’area di Verdun; sotto l’insistente fuoco nemico e sotto le ondate di fuoco amico, il piccione prende il volo portando il disperato appello del maggiore Whittlesey: “Ci troviamo lungo la strada parallela alle coordinate 276,4. Siamo sotto attacco da parte della nostra stessa artiglieria. Per carità divina, fermate i bombardamenti!”.

Cher Ami vola alto sulla collina, con il sibilo delle pallottole nemiche che gli sfiora le ali grigie e leggere. Per qualche istante la sua figura si staglia contro l’azzurro del cielo, seguita dagli occhi di tutti i soldati americani, stremati, sfiniti, tutti con un nodo in gola mentre pregano affinché quell’esile volatile possa superare il fuoco avversario.

Monumento ai caduti del “Lost Battalion”, il Battaglione Perduto, nella Foresta delle Argonne.

Poi, ad uno sparo segue un tonfo secco. Un fiotto di sangue macchia il bianco delle nuvole e Cher Ami cade.
Il maggiore Whittlesey e i suoi uomini abbassano il capo, in silenzio. Ormai anche l’ultima speranza è svanita, e fra poco probabilmente si ritroveranno di nuovo a lottare per la loro vita, in mezzo a quella foresta nera e sporca di sangue, ai cadaveri dei compagni e al tanfo di putrefazione dei corpi caduti.

Ma improvvisamente…
Improvvisamente un fruscio di foglie da un cespuglio, un battito frenetico d’ali, un tremolo pigolare…. Cher Ami si libra di nuovo in volo, con le piume zuppe di sangue ma con la determinazione e la forza di un vero soldato. Il suo piccolo corpicino si perde in un secondo fra le nuvole, mentre le compagnie di fanteria americane esultano e strepitano.

25 minuti dopo, a 25 miglia dalla collina dove la 77esima Divisione è bloccata da giorni, Cher Ami raggiunge il quartier generale alleato. Il corpo del piccione viaggiatore è una massa informe di piume e sangue: ha nel petto lo squarcio di una pallottola, grande come una moneta; crivellato di colpi ha perso un occhio; la zampetta sinistra è dilaniata, con carne e muscoli sfilacciati, ed è miracolosamente rimasta attaccata al corpo solo per un tendine.
Nonostante le gravissime ferite e il fuoco intenso che si è trovato ad affrontare, Cher Ami porta a termine la sua missione: legato a quella zampetta martoriata c’è il messaggio del maggiore Whittlesey, grazie al quale quasi duecento soldati ebbero salva la vita.

Dei circa 554 uomini della 77esima divisione coinvolti in quella battaglia, solo 194 furono salvati dalle forze alleate. 197 morirono in combattimento, mentre 150 vennero catturati o dati per dispersi.
Il maggiore Charles White Whittlesey e altri dei suoi compagni ricevettero la Medal Honor e la Distinguished Service Cross, le più alte onorificenze dell’Esercito degli Stati Uniti d’America.
Cher Ami venne curato con grande attenzione e riportato in America fra grandi onori: divenne l’eroe della 77esima Divisione e uno dei più conosciuti personaggi della I Guerra Mondiale, citato e studiato perfino nei libri di scuola. In riconoscimento del suo grande coraggio, gli fu assegnata la Croix de Guerre e una medaglia d’oro per i servizi resi durante la guerra. Morì il 13 Giugno 1919, e il suo corpo venne imbalsamato per onore e gloria delle sue gesta: è tutt’ora esposto allo Smithsonian Institution a Washington.

Il corpo imbalsamato di Cher Ami, conservato allo Smithsonian Institution di Washington.

 

Cani, bambini e allergie.

Fin da bambina ho sempre amato gli animali, in particolare i gatti e poi, crescendo, i cani. Non ho mai sofferto di particolari allergie fino all’adolescenza quando, nonostante avessi una splendida gattina dagli occhi azzurri in casa, mi sono ritrovata, da un giorno all’altro, a fare i conti con una serie di nuove allergie fra cui quella, insopportabile, all’epitelio di cane e gatto. Ricordo che, dopo mesi di continui starnuti e naso colante, scoprire di essere allergica alla mia Latte (così si chiamava la mia micia bianca simil-siamese) fu un colpo tremendo.

 

Shih-Tzu

Shih Tzu (Foto: Wikipedia)

L’allergia comunque non mi ha mai impedito di stare accanto agli animali: gatti, cani, topolini, serpenti, tartarughe, di tutto e di più; insomma ho sempre preferito starnutire piuttosto che non avere amici pelosi.

 

Tutti i bambini vorrebbero avere un animale domestico: la domanda <<Mamma mi prendi un cane? Per favoooore…>> è una delle più classiche e frequenti, subito seguita dall’affermazione <<Ti prometto che mi comporterò bene e lo porterò a fare le passeggiate!>>. Dopo tanto insistere da parte dei bimbi, in caso di allergie si opta solitamente per animali senza pelo, come pesciolini o volatili.

Da qualche anno si fa però un gran parlare di razze canine cosiddette “anallergiche”. Esistono davvero?

Innanzitutto vorrei precisare che no, non esistono cani anallergici. Secondo l’American Academy of Allergy, Asthma & Immunology, circa il 15% della popolazione mondiale sarebbe affetta da qualche forma di allergia a cani, gatti e altri animali domestici, e per la precisione ad una proteina presente nella loro “forfora”, nella saliva e nell’urina. Non esistono quindi cani “anallergici” (anche se gli scienziati ci stanno lavorando), anche se vi sono razze che non perdono pelo o lo mutano in misura minore, e sono quindi queste ad essere consigliate a persone con problemi di allergie.

Vediamone alcune.

Razze a PELO RICCIO.
Il sottopelo è scarso e a volte inesistente, non sono soggetti a muta e il pelo va tagliato o rasato.

  • I Barboni di qualsiasi taglia (toy, nano, medio, grande) sono probabilmente i più noti cani a pelo riccio. Estremamente intelligenti e facili da addestrare, sono adatti a famiglie con qualsiasi tipo di esigenza. Eleganti e vivaci, sono fra i più amati cani da compagnia di sempre. Il loro mantello fa la fortuna dei toelettatori, perchè necessita di cure continue soprattutto per gli esemplari da esposizione. Il Barbone è stato incrociato con tantissime altre razze note, per cercare di creare “ibridi” dal pelo ricciuto e quindi poco incline a causare allergie (Labrador > Labradoodle. Cocker Spaniel > Cockapoo. Pastore Tedesco > Shepadoodle.)

    A toy poodle at ten weeks.

    Cucciolo di Barbone a 10 settimane. (Foto: Wikipedia)

  • Irish Water Spaniel: bellissimo e antichissimo cane da caccia dall’aspetto elegante, questo spaniel è poco noto ma andrebbe sicuramente rivalutato. Ottimo cane da famiglia, ama i bambini e si presta ai loro giochi e capricci; è adatto a qualsiasi attività venatoria, anche se per tradizione viene usato per la caccia e il riporto della selvaggina d’acqua.
  • Il Bichon Frisé è un cane di taglia piccola, che non supera solitamente i 30 cm, che si differenzia dagli altri Bichon per il pelo, bianco e riccio; è una razza antica, nata come animale da compagnia e per questo dotata di un carattere dolce e vivace, mai aggressivo e di indole gentile. E’ adatto a qualsiasi famiglia, ama molto i bambini ed è perfetto anche per gli anziani.

Razze a PELO LUNGO.
Di varie tipologie, solitamente il sottopelo è scarso mentre il pelo di copertura è secco e facilmente pettinabile.

  • Il Lhasa Apso è una razza antichissima, cresciuta nei monasteri buddisti attorno a Lhasa e considerata “portafortuna” dai popoli orientali; di taglia piccola e carattere allegro, è un ottimo cane da compagnia, anche se un po’ diffidente con gli estranei. Ama molto i bambini e si presta ai loro giochi.
  • Shih tzu: derivante dal Lhasa Apso, è una razza elegante e di taglia piccola, perfetta per la vita in famiglia; intelligente, dolce e molto amorevole, nonostante sia un ottimo cane da compagnia tende a essere un po’ permaloso e non dimentica i torti subiti. Il pelo è lungo e il sottopelo abbondante, va curato frequentemente soprattutto negli esemplari da esposizione.
  • Il Maltese è un cane di piccola taglia dal pelo lunghissimo, bianco puro e brillante. Esiste da tempi antichissimi ed era molto in voga già al tempo dei Romani; è una razza prettamente da compagnia, molto intelligente e affezionata, anche se leggermente permalosa.

Razze di tipo TERRIER.
Il pelo non cade una volta morto, va quindi eliminato tramite una pratica di toelettatura detta stripping.

  • Kerry blue terrier: di taglia medio-grande, come tutti i terrier è vivace, intelligente e coraggioso, e ha perciò bisogno di stimoli e movimento; il pelo è ondulato, molto morbido e setoso e dalle tonalità blu.
  • Français : Deux Bedlington Terriers en juillet...

    Coppia di Bedlington Terriers. (Foto: Wikipedia)

    Il Soft coated wheaten terrier è una razza diffusissima soprattutto in America, dove è molto amato, grazie anche al suo carattere coraggioso e amabile. Possiede lo spirito vivace e intelligente dei terrier ma, a differenza degli altri suoi cugini, è un perfetto cane da compagnia perché molto equilibrato e poco aggressivo verso altri cani.

  • Razza splendida e purtroppo poco nota in Italia è il Bedlington terrier, cane di taglia medio-grande dal caratteristico aspetto simile a una pecorella; il suo pelo denso e soffice è infatti soggetto a una particolare toelettatura che gli conferisce il suo tipico aspetto grazioso ed elegante. Nonostante l’aspetto dolce è un cane vivace, intelligente e testardo, nato per la caccia e poco adatto al gioco con i bambini.

Da non dimenticare poi il caso delle razze SENZA PELO, come il Viringo o lo Xoloitzcuintli, non molto diffuse in Italia ma che piano piano si stanno diffondendo soprattutto in America.

 

Gli Italiani e l’incubo delle Rotatorie

Ammettiamolo: tutti noi patentati siamo, chissà quante volte, esplosi in qualche imprecazione o strombazzamento di clacson mentre, uscendo da una rotatoria, la macchina davanti ci tagliava simpaticamente la strada, urlandogli poi la classica frase: “E mettere la freccia, i****a?”. In teoria le rotonde dovrebbero servire a smaltire il traffico, in conformità con una normativa dell’Unione Europea che prevede l’aumento degli standard di sicurezza stradale nei paesi membri; in pratica, invece, sono molto spesso un incubo per chi è al volante.

Campus Drive at Mowatt Lane / Valley Drive vie...

Mowatt Lane nel Maryland (Foto: Wikipedia)

In effetti, con la trasformazione dei più grandi incroci semaforici in rotatorie alla francese (cioè con la precedenza data a chi è all’interno della rotatoria), sembrano essere drasticamente diminuiti gli incidenti e le casistiche di infortuni gravi. Ovviamente si può discutere se questo sia accaduto grazie alle rotonde in sé, o se sia semplicemente un effetto del fatto che gli automobilisti, non avendo ancora afferrato del tutto questo sistema, tendano a rallentare e procedere a passo d’uomo all’approssimarsi di una rotatoria.

Di fatto, le rotatorie viarie sono un fenomeno architettonico abbastanza recente, esploso negli ultimi vent’anni e per questo non previsto dal codice della strada: quindi non esiste una direttiva precisa sul comportamento corretto da tenere in rotatoria, con il risultato che spesso ci troviamo nella proverbiale situazione “paese che vai, usanza che trovi”. In linea di massima, comunque, dovrebbero valere i principi fondamentali in fatto di precedenze e comportamenti.

Prima di proseguire vi riporto un piccolo reminder, a cura dell’Osservatorio Provinciale Sicurezza Stradale di Reggio Emilia (nb: la non-italianità dell’ultima frase è nel testo originale, non è errore mio):

la maggior parte delle rotatorie esistenti sono realizzate secondo il modello “francese”, pertanto quando ci si trova al loro interno si ha diritto di precedenza rispetto ai veicoli in entrata anche se questi ultimi provengono da destra o da strade di primaria importanza. Eventuali diverse modalità di circolazione sono segnalate attraverso l’apposizione
di cartelli stradali e di strisce longitudinali.
In particolare, nelle rotatorie a due corsie di scorrimento, è buona norma impegnare la corsia esterna (cioè quella più ampia) nel caso in cui si debba poi subito svoltare a destra; viceversa è opportuno impegnare la corsia interna (cioè quella più stretta) nel caso in cui si debba percorrere larga parte della rotatoria o si debba effettuare una inversione rispetto al senso di marcia in entrata. Ogni manovra effettuata all’interno della rotonda e comunque ogni qualvolta la si debba lasciare per immettersi in una ramificazione laterale, è obbligatorio segnalare tale intenzione attraverso gli indicatori di direzione.

Insomma non è particolarmente complicato da capire: se devo prendere la prima uscita, resto nella corsia esterna; se devo uscire alle seguenti, mi sposto prima all’interno e poi di nuovo all’esterno al momento giusto e ovviamente mettendo la freccia… Anche se tutto ciò non è obbligatorio, quindi in caso di incidente si finisce con un concorso di colpa da entrambe le parti.
Peccato comunque che una larga percentuale degli automobilisti nostrani abbia sviluppato un modo artigianale di intendere il traffico nelle rotatorie, ovvero: “mi metto dove c’è meno gente”, o anche: “mi tengo sulla destra così non mi tocca cambiar corsia” .

L’Europa si sta riempiendo di rotatorie: in Gran Bretagna se ne contano oltre 10 mila, in Francia addirittura si superano le 30 mila. Ma il resto d’Europa probabilmente sa come funzionano: i quadratissimi Tedeschi, e gli Austriaci con loro, sono troppo precisi per non rispettare un meccanismo così logico; i Francesi d’altro canto le hanno inventate, le rotatorie, non possono quindi non conoscerne l’utilizzo; gli Inglesi poi son troppo orgogliosi per essere da meno, anche andando “controsenso”.
Gli Italiani invece, come sempre, le cose le fanno ad personam: io così, tu cosà.

Sinceramente?
Io mi sono arresa.

Rotonda en Begoña, Bilbao.

Bilbao. (Foto: Wikipedia)

Fino ad oggi ho tentato di seguire il codice della strada facendo le rotatorie come andrebbero fatte, immettendomi dalla corsia di sinistra, spostandomi al centro e poi uscendo al momento giusto… con l’unico risultato di essermi ca*ata nelle brache (scusate il francesismo) non so più quante volte a causa di frecce non messe o repentini cambi di corsia.
Siccome in macchina non sono più sola, e mi farebbe parecchio arrabbiare se a mio figlio succedesse qualcosa perché il furbo davanti/dietro di me non sa girare in una rotatoria, ho adottato anch’io la filosofia del tenersi sempre sulla corsia esterna in modo da non incrociare nessuno. Almeno però mantengo la sana abitudine del mettere sempre le frecce.

Aggiungo poi che da quando han piazzato rotatorie un po’ ovunque, girare in bicicletta o a piedi è diventato un (pericolosissimo) supplizio, con le strisce pedonali piazzate agli ingressi delle ramificazioni (avete presente la rotonda enorme del cavalcavia dell’Ospedale di Udine, poco dopo il Malignani? Con i pilastri e i camper che bloccano la visuale? Sfido gli Ingegneri che l’hanno progettata a farsi il girogirotondo delle strisce senza ricevere almeno un paio di clacsonate folli!).

E comunque rimango fermamente convinta del fatto che l’unico motivo per cui si preferiscono le rotonde ai semafori è perché costruirle costa molto di più (dai 150 agli 800 mila euro circa), ci vuole più tempo quindi anche le remunerazioni per le società di cantiere salgono, e soprattutto si ottengono più finanziamenti statali e/o provinciali (un esempio? Io abito in un paese di circa seicento abitanti con quattro strade in mezzo ai campi, dove non passa mai nessuno, eppure ci hanno piazzato una inutile rotonda finora frequentata principalmente dai gatti della campagna… questo perché si doveva con quel progetto ottenere un finanziamento per le opere pubbliche).

E’ sempre bello sapere che viviamo in un Paese in cui le Autorità valutano di maggiore importanza l’asfalto rispetto, per esempio, al verde pubblico o al sostegno familiare.

“Maah mmaah! [ovvero: “Camminare stanca!”]

Forse voi grandi non ricordate com’era crescere. Imparare a gattonare, stare seduti e poi alzarsi. Stare in piedi, imparare a camminare.
E cadere una volta, poi due e tre, di nuovo e ancora.
A volte sul morbido, per poi sorridere e ritirarsi su. Altre volte non ci sono cuscini e ci si fa male… solo un pochino però, e si dimentica subito perché c’è sempre la mamma a tenderci la mano e abbracciarci.

Io sto imparando.

Ho la mia pista di prova per gli atterraggi morbidi e il rodaggio su quattro zampe, ma punto in alto. Il tappeto ormai è cosa vecchia, vecchia di un paio di settimane (che in termini di baby-uomo sono tempi lunghissimi, sapete!)… io punto in alto, adesso miro ai divani!
Punto alle ginocchia della mamma che sta seduta a guardarmi attenta, ai cuscini accavallati uno sull’altro che qualcuno ha messo -ingenuamente- per cercare di fermarmi, al telecomando appoggiato nell’angolino più lontano del divano.

Piano piano ci arriverò… piano piano.

Incontri del terzo tipo: a colloquio presso un’interinale

Come molti ragazzi della mia età -e non solo-, sono mesi che mi ritrovo a dover affrontare i famigerati colloqui con le agenzie interinali, o agenzie per il lavoro. In questo momento di crisi in cui assunzioni se ne contano sempre meno, fare una buona impressione ai selezionatori di questi uffici è fondamentale: vestirsi in maniera adeguata, presentarsi curati ma non appariscenti, essere sicuri ma non arroganti, rendersi disponibili ma non con un atteggiamento troppo remissivo.
Spesso si tratta di fornire una prova d’attore, perché ormai sappiamo tutti qual è il modo migliore per fare bella figura e ci comportiamo di conseguenza.

Ho ripreso da poco (quattro mesi, alla faccia del “poco”) la ricerca di un lavoro, a seguito della maternità statale dopo la nascita di mio figlio. Ora che ha ormai sette mesi, mi ritrovo molto di frequente a fare “il giro della agenzie”, come dico le mattine in cui esco per andare nella cittadina di turno a fare, appunto, il solito giro degli uffici in cerca di qualche apertura sul mercato.

Adecco

Adecco (Photo credit: Wikipedia)

Umana, Adecco, Manpower, Metis, Randstadt, chi più ne ha più ne metta: ce ne sono a decine in ogni città, di solito in posti imbucati sotto qualche portico nascosto, in aree pedonali o su stradine a senso unico, che per arrivarci devi fare girogirotondo come uno scemo per ore.
Domanda 1:  le location per gli uffici le scegliete apposta per scoraggiare le visite?

Tutti hanno un portale web e un indirizzo mail, ma quasi nessuno legge i messaggi e devi quindi passare di persona.
Domanda 2: cosa le tenete a fare le mail, se non degnate di un minimo di attenzione le proposte che vi inviano i candidati?

Attività frustrante, far loro visita di persona; in ogni ufficio la stessa storia: saluti e ti presenti, gli ricordi chi sei e ti fanno un paio di domande per aggiornare la tua scheda e per ricordarsi del tuo profilo. Poi ti dicono: “Va bene, ho aggiornato il tuo profilo, per adesso non c’è nulla ma se ci si apre qualche richiesta adatta alla tua scheda ti chiamiamo“. Ringrazi, saluti ed esci. Ed entri in quella seguente. E via di nuovo, ancora e ancora.
Se poi è la prima visita e devi iscriverti, anche se hai il curriculum aggiornato e completissimo, devi comunque completare un fascicoletto con tutti i tuoi dati e, se possibile, fototessera.
Domanda 3: il curriculum cosa lo chiedete a fare, se poi dobbiamo copiare tutto a penna sulle vostre schede? Se a voi la carta la regalano, a me ancora no.

Ovviamente devi rispettare gli orari: l’altro giorno ho trovato su una porta l’avviso “valutiamo curriculum e nuove iscrizioni solo su appuntamento”, o ancora su un’altra, “l’ufficio è aperto al pubblico dalle 12.00 alle 13.00”. D’accordo che c’è carenza di lavoro, ma potreste almeno far finta di fornire un qualche genere di servizio, no?

Poi a volte sei fortunato e ti telefonano: “ci sarebbe questa proposta, se ti interessa vieni in sede e facciamo un colloquio conoscitivo”. Allora vai, ti prepari ben bene e ti tocca il primo colloquio: quello con la selezionatrice dell’agenzia. Cerchi di fare bella figura, sei cortese e disponibile, sorridi e annuisci. Però a volte ti fanno di quelle domande che ti verrebbe da rispondere male.

L’altro giorno mi è successo questo:
Agenzia: Da Luglio fino ad oggi cosa ha fatto?
Io: Ero in maternità fino a Febbraio, ho ripreso da poco a cercare lavoro, ora che mio figlio è un po’ più grande.
A: Ah ma… lei ha un figlio?
I: Si.
A: Questo è un problema.
I: Beh, no. Per me no.
A: Eh ma come fa, se si ammala… e poi chi lo tiene?
I: Ho i nonni.
A: Che lavoro fanno i suoi genitori?
I: Mio padre turnista e mia madre insegnante.
A: E quando loro lavorano, come fa?
I: Esistono le baby-sitter e in ogni caso ho anche i bisnonni.
A: Ah… ma se la sente di affidarlo a una baby-sitter? Vuole proprio lavorare?
I (perdendo la pazienza anche se con educazione): Voglio e devo lavorare, altrimenti mio figlio che fa, muore di fame?
Domanda 4: cosa vi interessa che lavoro fanno i membri della mia famiglia, il mio numero di scarpe, il colore dei miei capelli etc. etc.? Correggetemi se sbaglio, ma la legge sulla privacy stabilisce che le domande fatte durante un colloquio debbano vertere sulla professionalità del candidato e sulla sua attitudine verso la mansione, e non indagare su possibili fattori che possano in qualche modo discriminare una persona.

Sui giornali, sulle riviste, nei discorsi politici propagandistici pre-elettorali, sentiamo sempre la solita storia: c’è bisogno di dare spazio ai giovani, perché sono il futuro della società e la nostra linfa vitale; ricordiamoci però che linfa vitale della società sono anche i bambini, e che se le loro madri sono discriminate nel mondo del lavoro, questi bambini avranno minori possibilità di crescere in un ambiente sereno e minori possibilità di fare esperienze scolastiche e culturali di valore (perché la meritocrazia, anche nella scuola, è e rimane troppo spesso un miraggio), diventando così giovani dalla mentalità chiusa e poi adulti dagli orizzonti limitati.

Domanda 5: quand’è che ci renderemo conto che le madri e i bambini sono una ricchezza per la società e per il mondo del lavoro, e non un peso?

Apologia del cane di razza.

Ormai lo sappiamo, l’Italia è il paese del Bianco o del Nero. Il Grigio non fa parte della nostra cultura, che sembra non concepire le vie di mezzo e pare essere invasa sempre più da estremismi preoccupanti.

Anche nel mondo della cinofilia sta piano piano prendendo piede questo atteggiamento, che vede contrapporsi gli allevatori di razze pure più o meno note, sostenitori dell’importanza del pedigree e della purezza della razza, agli animalisti e ai volontari che da anni si prendono cura dei milioni di meticci che invadono strade e canili (soprattutto nell’Italia del Sud e del Centro, risultato dell’estrema ignoranza in merito alle politiche di contenimento nascite – per capirci, la sterilizzazione).

Ho assistito una volta a una discussione fra un Allevatore, che sosteneva che i meticci abbandonati sono un peso per la società e dovrebbero essere soppressi tutti, e alcuni proprietari di “bastardini” che, come me, rimasero scioccati di fronte alle soluzioni estreme che quella persona proponeva, inneggiando all’unicità e purezza dei suoi animali in confronto all’umile discendenza dei randagini che affollano le strade d’Italia.
[Tra l’altro poi: di chi è la colpa se il problema del randagismo è diventato di primaria importanza in molte regioni d’Italia? Certo non dei cani ma dei padroni irresponsabili! Ma di questo se ne parlerà più avanti, perché la teoria del controllo positivo delle nascite merita un discorso a parte.]

Se è vero che il cane è prima di tutto un amico, perché allora comprare questa o quella razza? I vostri amici “a due zampe” li avete scelti in base al colore dei capelli e al retaggio dei genitori, o semplicemente perché la vita vi ha portato ad essere caratterialmente compatibili e a trovarvi quindi bene assieme?
Il cane da compagnia non si compra; se volete un amico peloso, visitate prima di tutto i canili della vostra zona: troverete sicuramente cuccioli e adulti di qualsiasi taglia, dal “cane da borsetta” al “gigante buono”, tutti in attesa di poter finalmente vivere in famiglia.

Perché dunque comprare un cane di razza pura, con pedigree e genitori visibili, in un allevamento certificato e pagando centinaia di euro per un cucciolo?
Innanzitutto, ci tengo a precisare l’utilità effettiva del pedigree: non è tanto il lasciapassare ai concorsi ufficiali o un certificato di “purezza” in sè, quanto un’importante certificazione dello stato di salute fisica e caratteriale dei genitori e dei parenti dell’animale in questione, che garantisce il più possibile l’assenza di tare genetiche (vedi oculopatie o displasia dell’anca, tanto per citarne un paio).
Dal portale retrievers.it:

IPedigree è la CARTA D’IDENTITA’ del cane. Unico documento riconosciuto ufficialmente dall’ENCI e di conseguenza dal Ministero delle Politiche Agricole e Forestali; unico documento che certifica la proprietà del cane; unico documento che comprova la veridicità dei dati del cane in questione. La sua falsificazione è un reato punibile penalmente. Nel Pedigree si trovano i parenti (sino al 4° grado di ascendenza) così che si possa sapere con estrema precisione: le linee di sangue, le tare genetiche che potrebbero avere queste linee, quali i Campioni (Bellezza e Lavoro) tra gli avi e tante altre cose che spiegheremo più avanti.

Di fatto quindi, il pedigree è una vera e propria carta di identità dell’animale contenente tutti i suoi dati genealogici; per essere di razza un cane deve possedere un pedigree.

A German Shepherd dog Polski: Owczarek niemiecki

Il Pastore Tedesco è, assieme al Labrador, una delle razze più usate dall’uomo in ogni campo.

Premesso quindi che il cane da compagnia non andrebbe mai comprato (peraltro se avete la passione per una razza perché vi piace, sappiate che nei canili non vi sono solo meticci), per il cane da lavoro potremmo fare un discorso diverso.
Ci sono milioni di cani che, grazie al loro impiego e impegno quotidiano, contribuiscono a migliorare la nostra società: cani poliziotto e in generale a servizio dell’arma, cani da soccorso, cani guida…
I cani da lavoro sono soggetti a un lungo e dispendioso addestramento e devono quindi essere affidabili al 100% da ogni punto di vista: dal carattere allo stato di salute; chi li ha visti nascere deve perciò poter garantire le loro origini, ed è a questo che servono le certificazioni di nascita.

Che dire però del privato che decide di comprare un cane da guardia per il giardino dell’azienda, o un cane da pastore per aiutarsi nel proprio lavoro? O ancora, un Barbone o un Maltese perché ha problemi di allergie (alcuni cani, per alcune caratteristiche peculiari della loro razza, sono considerati “ipoallergenici” e il barboncino è uno di questi)?

Premetto che anche nei canili si trovano esemplari di razza pura, soprattutto di tipologie diffuse che negli anni sono state soggette a qualche tipo di “moda” (nel caso del Pastore Tedesco, ad esempio, come dimenticare l’idolo televisivo Rex?) e che sono generalmente quelle più ricercate anche in ambito da lavoro.

Qualcuno obietterà che nei canili i cuccioli scarseggiano, perché solitamente sono i primi ad essere adottati. Si trovano esemplari soprattutto adulti o cuccioloni, questo è vero, ma nell’era dei social network è virtualmente impossibile non riuscire a trovare un cucciolo di una delle razze più diffuse in un qualche ricovero.
Solitamente preferiamo un cucciolo perché abbiamo la falsa convinzione che ad un adulto non si possa insegnare nulla di più di quello che ha già imparato in giovane età, ma questo non è vero: è scientificamente provato che un cane può imparare nuovi comandi e nuovi lavori in qualsiasi momento nella sua vita. Magari ci metteremo un mese piuttosto che una settimana, ma il risultato sarà identico.

Detto tutto questo, se nonostante abbiate girato i canili della vostra regione e anche contattando santi e arcivescovi non siete riusciti a trovare la vostra anima (pelosa) gemella, rivolgetevi a un buon allevamento, dove gli animali vengono curati e seguiti con la dovuta attenzione come membri di famiglia.
Fate attenzione al professionista a cui vi rivolgete, però: troppo spesso i cuccioli di razza che troviamo su internet o in alcuni negozi provengono da traffici esteri illegali, e acquistarli significherebbe aumentare la richiesta di questo tipo di commercio inumano.

English: fawn pug

Una delle razze più in voga al momento è il Carlino, considerato un ottimo cane d’appartamento (Foto: Wikipedia).

Personalmente non sono contro l’esistenza di allevamenti di animali di razza “pura”; io stessa sogno da anni un Pastore Scozzese a Pelo Lungo, ma la mia prima tappa nello scegliere un amico quattrozampe sarà sempre un canile o un rifugio di zona. Non avendo necessità lavorative da affidare al mio compagno peloso, non fa per me differenza il suo aspetto esteriore.

Insomma signori: se avete 600 euro da spendere per un Carlino o 800 per un Chihuahua (prezzi indicativi pagati da persone di mia conoscenza, so che possono salire molto di più per queste due razze) che poi vestirete di rosa e terrete in borsetta… sappiate che di cuccioli senza famiglia è pieno il mondo: loro non vi chiederanno tutti quei soldi e vi daranno affetto a tonnellate!

Ovviamente, se proprio proprio volete comunque spenderli, potreste sempre fare una donazione a qualche Ente per la Protezione Animale della vostra zona!

Essere mamme e aderire a uno shopping cruelty-free.

In questi giorni si parla molto, soprattutto sul web e sulla stampa, di argomenti legati ai problemi etici a cui il progresso scientifico e tecnologico ci mette di fronte.

A seguito delle rocambolesche vicende che hanno coinvolto gruppi di manifestanti animalisti ai cancelli dell’allevamento di Green Hill di Montichiari (BS), l’opinione pubblica si è vista nuovamente sbattere in faccia temi “scomodi” come la vivisezione e la sperimentazione animale.
La storia ormai la conosciamo: il 28 aprile un drappello di attivisti animalisti appartenenti a diverse associazioni ambientaliste, affiancati anche da comuni cittadini di ogni età ed estrazione sociale, si è riversato alle porte di “Green Hill”, un allevamento di cani di razza Beagle che ospita circa 2500 animali, destinati a diventare cavie per la ricerca scientifica. Alcuni dei manifestanti sono riusciti a entrare e a salvare qualche decina di cuccioli, le cui foto -alcune delle quali bellissime ed emozionanti, come questa a sinistra- hanno fatto il giro del mondo.

Sappiamo tutti, chi più chi meno, che ancora oggi la ricerca scientifica basa la parte finale del testing di un prodotto su cavie di laboratorio: non sono topolini, ma anche gatti, cani, cavalli, muli, quaglie, scimmie, maiali, pappagalli, conigli, criceti, pesciolini… se questo sia giusto o meno è una domanda che da anni ci poniamo, senza purtroppo trovare grandi risposte. Sarà anche vero che ad oggi non esiste alcuna tipologia di ricerca in vitro che possa interamente sostituire quella basata sull’uso di animali come cavie, ma è davvero anche necessario far morire i nostri amici pelosi fra atroci sofferenze, usandoli come “oggetti” invece che come “esseri viventi”?

Personalmente sono contro ogni tipo di sperimentazione su animali: probabilmente se nel 2012 l’uomo, lo stesso uomo che è stato sulla Luna e che ora pianifica l’esplorazione di altri pianeti, non ha ancora trovato un modo alternativo per proseguire con lo sviluppo della tecnologia medica, è solo per mancanza di impegno nel tentare strade nuove.

Oggi comunque non sono qui per discutere sui pro e sui contro della sperimentazione animale: sappiamo tutti che migliaia di vite sono state salvate grazie alla ricerca medico-scientifica, ma non è di questo che voglio parlare.
Accanto ai movimenti animalisti anti-vivisezione contro le multinazionali che finanziano studi e ricerche sugli animali, infatti, vi sono anche aziende pulite che sviluppano i loro prodotti in modo naturale e biologico. Queste aziende si sono viste riconoscere, negli anni, varie certificazioni come “amiche dell’ambiente”: la più nota è probabilmente la Cruelty Free stilata dalla LAV (Lega Anti-Vivisezione) e simboleggiata dal leaping bunny sulle etichette dei prodotti che sono conformi.
E qui veniamo all’argomento del discorso.

Care mamme,
scommetto che anche voi, come me, avrete la casa invasa da pannolini (probabilmente Pampers, frequenti in promozione o pacchi-convenienza), salviettine umide (magari Huggies, perchè si trovano quasi sempre in confezioni risparmio)… e poi gli altri immancabili: creme, cremine, lozioni, talchi, olii…
Se anche voi amate la natura e gli animali, però, vi sarete chieste se questi prodotti nascono attraverso procedimenti di sviluppo “puliti”. Non trovando nessuna etichetta che ne certifichi la provenienza, però, alla fine li avete comprati comunque.

A me capita ogni giorno: mi piacerebbe fare una spesa cruelty free per le varie necessità del mio bebè, ma su nessuno dei prodotti che compro abitualmente c’è alcuna indicazione in merito… anche perchè, se ci fosse scritto a lettere cubitali su una cremina, “testato su pelle di gatto vivo”, quante di noi effettivamente la comprerebbero comunque? Quanti dei prodotti di igiene per l’infanzia sono cruelty free?

Purtroppo, ben pochi in realtà.

La maggioranza dei pannolini più noti, ad esempio, sono prodotti da aziende appartenenti a multinazionali che operano in vari settori e che sovvenzionano direttamente o indirettamente la sperimentazione sugli animali. Alcuni esempi?

  • Pampers: prodotti dalla Procter & Gamble, una multinazionale chimica americana divenuta negli anni una delle più grandi aziende di beni di largo consumo per famiglie, che fornisce detersivi (Ace, Dash, Swiffer, Viakal…), cura della bellezza (Gillette, Pantene, Wella…) e dell’igiene (Infasil, Lines, Tampax, Vicks, AZ…). La P&G è considerata uno dei colossi della vivisezione, visto che una larga percentuale del suo fatturato è destinata appunto alla ricerca sugli animali.
  • Huggies e Pull-Ups: prodotti dalla Kimberly-Clark; attualmente questa multinazionale americana testa ancora una minoranza dei suoi prodotti sugli animali ma che, a seguito di una nuova regolamentazione interna datata Agosto 2009 (e nata in seguito a proteste della Greenpeace), si sta muovendo verso una produzione che sia il più pulita possibile.
  • Mister Baby: prodotti inizialmente dalla SSL Healthcare, che nel 2010 è stata acquisita dalla Reckitt Benckiser; questa multinazionale inglese è nota per marchi come Veet e Clearasil, ed anch’essa fa parte di quella maggioranza che basa le sue ricerche su test animali.
Volete quindi sapere che marchi comprare? Vi sembrerà strano, ma i pannolini Coop, seppur considerati come “sottomarca” e quindi quasi mai acquistati, aderiscono alla politica cruelty free dell’azienda: tutti i loro prodotti, comprese le creme e la cosmesi, sono certificati ICEA e sono quindi amici degli animali.
A proposito di creme… vogliamo parlare anche di queste?
  • Johnson’s Baby: prodotti dalla Johnson & Johnson, multinazionale americana attiva anche in ambito farmaceutico e una fra le maggiori in campo sanitario. Purtroppo la sua politica aziendale prevede ancora un uso intensivo della sperimentazione animale; altri suoi marchi noti sono Neutrogena, Aveena, RoC…
  • Babygella (Saugella): prodotta dalla Bristol-Myers Squibb, una multinazionale chimico-farmaceutica da anni oggetto di boicottaggio da parte di numerose associazioni animaliste a causa dell’uso della sperimentazione animale come metodo di ricerca.
  • Nivea Baby: figlia della Beiersdorf Inc., multinazionale tedesca, la linea Nivea non è testata direttamente su animali ma lo sono i suoi ingredienti. La Beiersdorf (come la maggioranza delle altre ditte finora citate) afferma di non condurre alcun tipo di sperimentazione animale, ma ciò può essere condotto dalle aziende che lavorano per suo conto secondo quanto previsto dalla legge.
  • Fissan: probabilmente la linea per la cura dell’igiene infantile più diffusa in Italia; è prodotta dalla Sara Lee Household, azienda americana che, seppur mantenga ancora attiva la pratica di ricorrere alla sperimentazione animale, ha recentemente lavorato assieme a gruppi e ricercatori animalisti per cercare di porre fine a questo tipo di ricerca.
Ci sono ovviamente tantissimi altri nomi in questo ambito, più o meno famosi… come scegliere quindi un kit cruelty free per la cura dell’igiene del nostro bebè?
In questo campo per fortuna ci sono un paio di nomi di grosso calibro: marchi come Helan, Bottega Verde e L’Erbolario offrono ormai da anni numerosi prodotti per la pelle dei bambini, dal cambio al bagnetto, certificati dalla LAV e riconoscibilissimi grazie al bollino con il coniglietto bianco. Ci sono inoltre altre marche, forse meno note e diffuse ma comunque validissime, come Bema Baby o Argital, che vale la pena imparare a conoscere perchè conducono una politica pulita in favore della natura e degli animali e propongono ottimi prodotti per la cura della cute dei bimbi.
Un’altra nota dolente per le mamme in cerca di prodotti eco-sostenibili è l’alimentazione per l’infanzia… ma questo è un discorso che vorrei fare a parte perchè i nomi da citare sono ancora numerosi (un’anticipazione: Milupa, ditta figlia della Nestlè, uno dei grandi colossi della vivisezione).
Spero di essere stata utile a quelle fra voi che, come me, vorrebbero proteggere i propri bimbi utilizzando prodotti di qualità, ma anche tanti altri cuccioli che forse non saranno umani ma hanno esattamente i nostri stessi diritti.
Alla prossima!

Un due tre… ‘nghe!

Eccomi qui!
Mi chiamo Alessio, Lex per gli amici! Siccome sono un bimbo grande e tecnologico, ho chiesto a Mamma di aprire un sito tutto per me!  Così potrò raccontarvi i miei progressi… adesso ho quasi sette mesi, mangio con il cucchiaino e ho anche quattro bei dentoni che a volte mi fanno un pochino male e mi fanno piangere. Per fortuna mi bastano un po’ di coccole perchè tutto passi in fretta.

Mamma mi ha detto che a volte userà anche lei questo sito; le ho dato il mio permesso quindi scusate se a volte troverete qualcuno dei suoi messaggi. Sapete, è sempre qui con me a prepararmi le pappine e cambiarmi i pannolini, quindi ho deciso di farle questo piccolo favore.

Ora vorrei anche un cellulare e la PlayStation, ma Mamma dice che per quelli dovrò aspettare ancora un po’… non vedo l’ora di diventare ancora più grande!

Un due tre, partenza!

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Eccoci qui, allo starting post dell’ennesimo esemplare di diario internettiano.

Il primo post è uno degli incubi di quasi tutti gli utenti della blogosfera… è un po’ come la prima frase di un tema, o il primo capitolo di un romanzo. Da dove inizio? I personaggi li presento o lascio che vengano introdotti dallo scorrere della narrazione? Devo scrivere in maniera oggettiva o soggettiva?
Poi una volta partiti di solito non si riesce a smettere.

Beh… io ho iniziato molte volte, alcuni esperimenti sono stati più longevi e altri sono scomparsi velocemente dall’elenco delle cose da fare. Vedremo questa volta come andrà.

Di chiaro comunque c’è ben poco, se non alcuni argomenti: sicuramente blatererò molto di cani e gatti e picchetti animalisti. Gongolerò moltissimo su quanto siano fantastici i progressi di mio figlio, che ora ha sei mesi e mezzo e comincia a riservare una sorpresa diversa per ogni giorno che passa…
E poi qualche ricetta forse, o qualche pensiero sfuso come i cioccolatini al bar. E qualche favola… in fondo in fondo a chi non piacciono le favole?

 

Picture courtesy of Betta. ❤